Dimissioni: possibili ma sconsigliate
La lavoratrice incinta o che ha partorito può validamente porre termine al rapporto di lavoro durante la gravidanza e durante il termine delle sedici settimane che seguono il parto (ATF 118 II 58).
La tutela sancita dalla legge infatti riguarda il licenziamento (da parte del datore di lavoro) e non le dimissioni per iniziativa della lavoratrice.
Attenzione, una simile soluzione potrebbe rivelarsi contraria ai propri interessi; infatti se il contratto di lavoro cessa prima del parto, la lavoratrice perde il diritto al congedo di maternità e alle prestazioni previste dalla legge sull’assicurazione di maternità; prestazioni la cui concessione è subordinata al fatto che la lavoratrice sia a beneficio di un contratto di lavoro (v. Il Bebè è nato – congedo di maternità – diritto al congedo di maternità).
Salvo circostanze eccezionali, si sconsiglia dunque alla donna incinta di porre termine al contratto di lavoro prima del parto.
Se la lavoratrice non intende riprendere la sua attività, alla fine del congedo di maternità, può convenire con il datore di lavoro che la cessazione del rapporto avvenga per la fine delle sedici settimane. In caso di disaccordo, la lavoratrice può comunque dimissionare ma dovrà osservare la scadenza del termine previsto. Al contrario, il datore di lavoro non può interrompere il contratto di lavoro prima delle 16 settimane di protezione contro il licenziamento, e dovrà inoltre rispettare la scadenza del termine previsto.
Madri che riprendono a lavorare e madri che non riprendono
Determinati accordi (contratti collettivi, contratti individuali di lavoro) prevedono una
riduzione della durata del pagamento del salario o delle indennità giornaliere versate dalle aziende alle lavoratrici che intendono cessare il lavoro o ridurre il loro grado di
attività. Siamo qui in presenza di ipotesi in cui o non trova applicazione il congedo maternità federale, o la riduzione incide su delle prestazioni più elevate rispetto a quelle concesse dall’assicurazione maternità federale tramite il datore di lavoro. Vale la pena qui ricordare che ai fini della concessione delle indennità di maternità, la legge non distingue tra la donna che riprende a lavorare rispetto a quella che dopo il parto non riprende il lavoro.
Probabile discriminazione
Per diverse ragioni, simili disposizioni costituiscono una discriminazione rispetto alle madri che riducono o cessano la loro attività lucrativa alla nascita del figlio. In quanto tali, non sono ammissibili alla luce della legge sulla parità dei sessi che vieta ogni forma di discriminazione basata sulla gravidanza, sul sesso o sulla situazione familiare (art. 3 LPar). Questa legge concretizza il principio di uguaglianza tra l’uomo e la donna sancito dalla Costituzione (art. 8 cpv. 3) da cui scaturisce il divieto di discriminare in ragione del sesso.
Tale principio è assolutamente inderogabile e imperativo, e in questo senso qualsiasi regolamentazione contrattuale difforme è nulla (contratto di lavoro individuale, contratto tipo o contratto collettivo).
Altri argomenti a favore di tale tesi:
- la ripresa o meno del lavoro dipende esclusivamente dalla volontà della madre e,
pertanto, deve essere interpretata come evento futuro noto (certo). Ora, in materia di
assicurazioni, si assicura un rischio, vale a dire un evento futuro incerto; pertanto,
non si può far dipendere una prestazione assicurativa da un evento futuro noto
(certo);
- le prestazioni di assicurazione sono generalmente finanziate mediante contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro, espressi in percento del salario. Non sarebbe per
nulla equo, rispetto a due donne che hanno pagato entrambe i contributi, riservare
poi trattamenti previdenziali differenti, in base alla mera decisione se riprendere o
meno il lavoro dopo il congedo maternità.